La Responsabilità Civile

Tra gli ambiti di intervento in cui lo Studio è maggiormente sollecitato, vi è senza dubbio quello delle richieste di risarcimento dei danni patìti in conseguenza di un inadempimento contrattuale, ovvero di un fatto illecito di natura extracontrattuale.

In questa breve rassegna ci proponiamo, senza alcuna pretesa di esaustività, di fornire un primo inquadramento sistematico della materia, elencando alcune figure tipiche di responsabilità extracontrattuali, con particolare attenzione alle presunzioni di legge, all’onere probatorio e allo specifico regime prescrizionale.

QUADRO NORMATIVO DI RIFERIMENTO.

L’art. 1173 c.c., inserito nel libro IV del codice civile, delinea i principi generali delle obbligazioni prevedendo testualmente: “Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”.

Invero, l’ultima parte della succitata disposizione normativa, nel richiamare una categoria residuale delle fonti, offre un decisivo contributo di caratterizzazione del nostro sistema che può definirsi aperto.

Viene, cioè, delineata una atipicità delle fonti produttive di obbligazioni nel senso che, anche atti o fatti non previsti in norme puntuali, sono suscettibili di produrre obbligazioni, ma sempre entro il limite della conformità all’ordinamento giuridico.

E’ invece alle prime due categorie, c.d. tipiche, che il nostro ordinamento attribuisce la preminente capacità di dare vita alle obbligazioni,le quali hanno origine, più segnatamente, da contratto (quando vi è un rapporto intersoggettivo di natura contrattuale tra debitore e creditore, di talché la regola si dirige ai soli interessati) o da fatto illecito (al di fuori di qualsiasi pregresso rapporto tra le parti, a fronte della violazione di una regola generale valida per l’intera collettività).

Per quanto attiene alle obbligazioni assunte in forza di contratto, l’inadempimento è disciplinato dall’art. 1218 cod. civ., che prevede espressamente: “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

L’ordinamento giuridico, pertanto, ha previsto, a fronte della “responsabilità contrattuale” originata da una violazione di un dovere specifico derivante da un preesistente rapporto obbligatorio, il diritto della parte diligente a conseguire il risarcimento del danno, salvo che la prestazione sia divenuta impossibile per fatto non imputabile alla parte inadempiente.

Spetta, quindi, al creditore che richiede la tutela giurisdizionale fornire, oltre alla prova della fonte negoziale o legale del proprio diritto, l’allegazione della circostanza dell’inadempimento e/o inesatto adempimento della controparte e dell’entità del danno patito e ciò a prescindere dalla condotta del debitore inadempiente e dalla sussistenza dell’elemento psicologico del dolo o della colpa.

Di converso, sul debitore che intenda sottrarsi all’obbligo risarcitorio, graverà l’onere di provare il fatto estintivo dell’obbligazione, costituito dall’avvenuto adempimento e/o esatto adempimento, ovvero di allegare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per cause a sé non imputabili.

In tema di risarcimento del danno da illecito contrattuale, il termine entro il quale far valere la pretesa è stabilito dall’art. 2946 c.c. nel termine prescrizionale ordinario decennale, salvi i tempi più brevi previsti da specifiche tipologie contrattuali.

Ciò consentirà al danneggiato di poter invocare la tutela del proprio diritto entro il suindicato “termine lungo”, avendo particolare riguardo alla decorrenza del “dies a quo” dal momento in cui il pregiudizio, causato dal colpevole inadempimento del debitore, si sia ripercosso sulla propria sfera patrimoniale.

Con riferimento, invece, alle obbligazioni nascenti da fatto illecito derivanti, in altri termini, da vicende estranee ad un pregresso rapporto contrattuale e perciò definite “extracontrattuali”, la norma cardine di tale categoria di responsabilità (anche detta “aquiliana” dal nome della legge romana che disciplinò per prima la responsabilità ex delicto), è rappresentata dall’art. 2043 del codice civile, inserito al titolo IX del libro IV rubricato “Dei Fatti Illeciti”, che testualmente recita: “qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.

E’ proprio con riferimento alla responsabilità extracontrattuale che più propriamente si può parlare di “responsabilità civile”.

Per ottenere la tutela delle posizioni giuridiche soggettive che si assumono lese, l’ordinamento impone al soggetto danneggiato di fornire rigorosa e puntuale prova di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità civile, quali il fatto illecito, il danno ingiusto, il nesso di causalità tra il fatto e il danno, l’imputabilità del fatto lesivo e la colpevolezza dell’agente.

Il primo elemento che caratterizza la responsabilità aquiliana è il fatto illecito, da intendersi come qualunque fatto, atto o comportamento umano doloso (tenuto con l’intenzione di nuocere) o colposo (con imprudenza, negligenza, imperizia) in grado di cagionare ad altri un danno ingiusto.

Il danno è, infatti, definito ingiusto allorquando comporti la violazione del principio del “neminem laedere”, quale clausola generale posta a garanzia di tutti gli interessi giuridicamente rilevanti e, pertanto, suscettibili di tutela da parte del nostro ordinamento.

Il nesso causale è il legame eziologico tra la condotta (commissiva o omissiva) e l’evento, ed è condizione imprescindibile per attribuire il fatto illecito (e conseguentemente il danno) al soggetto autore: in altre parole, la modificazione del mondo esterno (l’evento) può essere imputata ad una persona solo se la stessa sia conseguenza della sua condotta.

Purtuttavia il nesso di causalità tra la condotta che ha contribuito a provocare l’evento dannoso e il danno stesso può essere giuridicamente interrotto, escludendosi, quindi, la colpevolezza, o comunque la riconducibilità del fatto al soggetto, per diverse cause, tra cui rilevano, la forza maggiore ed il caso fortuito.

Al verificarsi dei surrichiamati elementi fattuali della forza maggiore (che si verifica in presenza di quelle cause esterne di carattere eccezionale alle quali non è oggettivamente possibile far fronte determinando, appunto, inevitabilmente l’avverarsi dell’evento), ovvero del caso fortuito (che si verifica in presenza di quegli eventi assolutamente improbabili o imprevedibili secondo la comune scienza ed esperienza che rendono inevitabile il verificarsi del fatto illecito), l’autore è esentato da qualsivoglia responsabilità.

Affinché si possa configurare la responsabilità civile si richiede, oltre ovviamente all’imputabilità del fatto lesivo all’agente, l’elemento della colpevolezza dell’agente stesso, mutuando le definizioni fornite dalla disciplina penalistica (ex art. 43 c.p.) secondo cui l’evento doloso è quello previsto e voluto dal soggetto come conseguenza della propria azione o omissione, mentre l’evento colposo è quello non voluto dall’agente, che si verifica per negligenza, imprudenza e imperizia (c.d. colpa generica), ovvero per violazione di specifiche regole di condotta (c.d. colpa specifica).

L’accertamento della responsabilità civile ha funzione risarcitoria, essendo improntata al principio dell’integrale riparazione non soltanto del danno patrimoniale, ma anche del danno non patrimoniale, così come previsto dall’art. 2059 cod. civ.

Il danneggiato ha, infatti, interesse a che la situazione giuridica di cui è titolare venga restituita ad integrum, obbligando il danneggiante a riparare il danno ingiusto ricostruendo la condizione economica quo ante del danneggiato, oltre a conseguire, ove ricorrente, il risarcimento delle conseguenze negative di tipo non patrimoniale.

Contrariamente a quanto previsto per la responsabilità contrattuale, nella responsabilità extracontrattuale il termine entro il quale far valere il proprio diritto è assoggettato al regime prescrizionale breve quinquennale ex art. 2947 cod. civ., salvo ulteriore riduzione in presenza di alcune categorie codificate di responsabilità (come ad esempio per il termine biennale per la responsabilità da circolazione di veicoli ex art. 2947, II° comma).

Dopo averne tratteggiato le linee generali, si ritiene opportuno esaminare la responsabilità civile in alcune particolari declinazioni le quali, pur ricomprese nel titolo IX del nostro codice “Dei fatti illeciti”, evidenziano caratteristiche assimilabili, in tutto o in parte, alle responsabilità di natura contrattuale.

Dalla breve rassegna che segue, si evincerà chiaramente come l’ordinamento giuridico abbia inteso inserire alcune presunzioni, che si traducono in un “favor” per i danneggiati soprattutto sotto il profilo dell’onere probatorio.

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  1. Responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei maestri d’arte.

Pur inserendosi nell’ambito delle responsabilità extracontrattuali, l’art. 2048 del codice civile introduce un regime probatorio più favorevole per il danneggiato, consistente nella presunzione di responsabilità gravante sui genitori e sugli insegnanti per l’illecito commesso dal figlio minore, ovvero dall’allievo durante il periodo di affidamento.

Tale presunzione si fonda sulla colpa in vigilando o in educando, presupponendo l’ordinamento giuridico che i fatti illeciti commessi dai figli e dagli allievi si siano verificati a causa della inefficaciadell’educazione impartita, o per difetto di adeguato controllo.

Così opinando, sul danneggiato incombe, al fine di ottenere l’accoglimento della domanda risarcitoria, soltanto l’onere di provare che il fatto illecito sia stato commesso dal minore, o dall’allievo, mentre è sottoposto alla vigilanza degli insegnanti o precettori.

Di converso, per sottrarsi alle conseguenze di tale presunzione, i genitori dovranno fornire la difficile prova liberatoria di non avere potuto impedire il comportamento dannoso del figlio avendo cura di dimostrare, secondo i principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità, di avere impartito al minore l’educazione e l’istruzione consone alle proprie condizioni familiari e sociali e di avere vigilato sulla sua condotta in misura adeguata all’ambiente, alle abitudini ed al carattere del figlio e, quindi, idonee a prevenire un suo comportamento illecito, nonché, a correggere quei difetti come l’imprudenza e la leggerezza che il fatto commesso dal minore hanno evidenziato, e di avere, più in generale, adempiuto ai doveri che l’art. 147 del codice civile impone ai genitori.

E’ del pari di difficile assolvimento la prova liberatoria incombente sui maestri e precettori, i quali sono onerati di provare di non avere potuto impedire il fatto illecito dell’allievo in quanto imprevedibile (che, per definizione, è anche non prevenibile); avendo, inoltre, cura di dimostrare l’adozione preventiva di tutte le misure disciplinari o organizzative idonee ad evitare l’insorgere di una situazione di pericolo, avendo approntato un sistema di vigilanza adeguato alle circostanze del caso.

Sempre nell’ambito della responsabilità di maestri e precettori si segnala, proprio per la sua particolarità, il caso del danno che l’alunno cagiona a se stesso, c.d. autolesione, da ricomprendersi a pieno titolo nelle responsabilità contrattuali.

Infatti, la giurisprudenza di legittimità ha individuato, nel rapporto instauratosi tra l’istituto scolastico e l’allievo, attraverso l’accoglimento della domanda di iscrizione, un vero e proprio vincolo negoziale, da cui sorge l’obbligo dell’istituto di vigilare sulla sicurezza e incolumità dell’allievo. Del pari, anche l’insegnante instaura con l’allievo, per orientamento unanime della Suprema Corte, un vincolo contrattuale da c.d. contatto sociale, nell’ambito del quale il maestro assume anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza, onde evitare che l’allievo si procuri da solo un danno alla persona.

Da ciò ne deriva che, sotto il profilo probatorio, al danneggiato sarà sufficiente provare che il danno si sia verificato durante e nel corso dello svolgimento dell’orario scolastico; l’istituto potrà risultare esente da responsabilità solo al raggiungimento della non facile prova che l’evento dannoso sia derivato da una causa non imputabile alla scuola o ad un suo docente, essendo riconducibile ad un evento casuale non evitabile ed imprevedibile.

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  1. Responsabilità dei padroni e committenti.

Nel medesimo solco si inserisce l’art. 2049 cod. civ. il quale, sempre nell’ambito della responsabilità aquiliana, prevede una deroga al principio di responsabilità dell’autore materiale del fatto illecito, sancendo che: “I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”.

Tale norma, se da un lato ha introdotto un sistema di tutele più favorevole per la persona danneggiata, dall’altro ha previsto una vera e propria responsabilità oggettiva del preponente il quale risponde per fatto altrui, senza che sia codificata alcuna prova liberatoria in suo favore.

Il fondamento della responsabilità dei padroni o committenti viene individuato nel principio secondo il quale del fatto debba rispondere colui che trae vantaggio dal rapporto con il preposto (il c.d. cuius commoda eius et incommoda). In altri termini, poiché l’agire del dipendente è uno degli strumenti dei quali l’intermediario si avvale nell’organizzazione della propria impresa traendone benefici, appare di converso ragionevole farvi corrispondere i rischi conseguenti. Tale responsabilità è anche ricondotta al nesso di “occasionalità necessaria” tra l’illecito e il rapporto di lavoro che vincola i due soggetti, nel senso che le mansioni affidate al dipendente abbiano reso possibile, o comunque agevolato, il comportamento produttivo del danno al terzo.

Ai fini dell’applicazione della responsabilità ex art. 2049 cod. civ. occorre che vi sia un rapporto particolare (che la norma in esame indica utilizzando le espressioni “padrone” – “committente” e “domestici” – “commessi”), anche se la responsabilità del datore di lavoro non discende esclusivamente dall’esecuzione delle specifiche mansioni affidate al dipendente, ma si ritiene invero sufficiente che la condizione lavorativa sia occasione necessaria per la realizzazione, o anche solo l’agevolazione, della condotta dannosa, eccetto che questa non consista in un’attività del tutto estranea al rapporto di lavoro.

Per cui la responsabilità del datore di lavoro sussiste non solo quando sia configurabile una dipendenza causale diretta tra il fatto illecito e le mansioni affidate all’autore, ma anche quando tra tali due elementi sussista un “rapporto di occasionalità necessaria”, nel senso che l’incombenza svolta abbia determinato una situazione tale da agevolare e rendere possibile il fatto illecito e l’evento dannoso, e ciò anche se il dipendente abbia operato oltre i limiti delle sue incombenze e persino trasgredendo gli ordini ricevuti, purché sempre nell’ambito delle sue mansioni.

Dall’altra parte non è previsto dal codice che il preponente possa fornire una prova liberatoria: può solo dimostrare che non sussistono i presupposti per applicare la norma.

Grava, in pratica, sul precitato preponente l’onere di provare che non sussista alcun rapporto di preposizione con l’autore materiale del danno, ovvero che il danno sia imputabile all’attività privata dell’autore dell’illecito, ovvero che non sussista il fatto illecito del dipendente anche per difetto del nesso causale.

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  1. Danno cagionato da cosa in custodia.

Sempre all’interno del titolo IX del codice civile l’art. 2051 cod. civ., rubricato “danno cagionato da cosa in custodia”, si lascia notare per la sua particolarità.

Infatti, in conseguenza diretta del danno cagionato dalla cosa, tale norma prescrive una responsabilità specifica in capo alla persona che ha il dovere di assistere e custodire la cosa, trovandosi nelle condizioni di controllarne i rischi.

Destinatario di tale responsabilitàè quindi il custode, ossia colui che risulta avere un effettivo e non occasionale potere fisico sulla cosa, il quale viene ritenuto colpevole di avere violato il proprio dovere di custodire e proteggere il bene.

Sul danneggiato che agisce in giudizio per ottenere il risarcimento del danno dal custode, incombe quindi soltanto l’onere di provare il verificarsi dell’evento dannoso e la sussistenza del nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato.

Con la particolarità che, nei casi in cui il danno non sia conseguente al dinamismo della cosa di per sé statica e inerte, ma richieda che la condotta del danneggiato si unisca al modo di essere della cosa, per la prova del nesso causale occorre dimostrare che lo stato dei luoghi presentava un’obiettiva situazione di pericolosità, tale da rendere molto probabile, se non inevitabile, il danno (tipico caso quello della caduta su una chiazza d’olio presente sul pavimento di una corsia di un supermercato).

La causa di giustificazione che il custode può addurre per evitare la propria responsabilità, si ritiene assolta solo se egli prova che l’evento è stato determinato da un “caso fortuito”, quale evento non prevedibile e neppure evitabile che praevideri non potest.

Ragion per cui, la prova liberatoria richiesta al custode per escludere la propria responsabilità non attiene alla propria condotta, bensì riguarda esclusivamente la presenza di un caso fortuito, ossia l’esistenza di un fattore estraneo che, per il suo carattere di imprevedibilità e di eccezionalità, sia idoneo ad interrompere il nesso causale, così come in presenza di un comportamento colpevole da parte del danneggiato.

Tuttavia, è stato costantemente affermato in giurisprudenza come la condotta, pure negligente, distratta ed imprudente della vittima non sia di per sé ritenuta sufficiente ad escludere la responsabilità del custode.

Invero, la condotta della vittima rileva al fine di integrare la propria responsabilità, sia essa esclusiva ovvero concorrente, allorquando, oltre al requisito dell’imprudenza dello stesso danneggiato, possa definirsi imprevedibile per essere eccezionale, inconsueta ed inattesa da una persona sensata.

In altri termini, soltanto a fronte del contegno non solo imprudente del danneggiato, ma anche imprevedibile, al punto da assumere valore eziologico assorbente, la cosa acquisisce il ruolo di semplice occasione e non di causa del danno, con conseguente esclusione di qualsivoglia responsabilità in capo al custode.

In questo senso, la mera disattenzione della vittima non necessariamente integra il caso fortuito per i fini dell’art. 2051 c.c., in quanto il custode, per superare la presunzione di colpa a proprio carico, è tenuto a dimostrare di avere adottato tutte le misure idonee a prevenire i danni derivanti dalla cosa che si sarebbero verificati in concreto esclusivamente per fatto imprevedibile del danneggiato.

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d) Danno da circolazione di veicoli:

Rimanendo al libro IX del codice civile intitolato “Dei fatti illeciti”, assume particolare rilievo, non ultimo per le sue implicazioni pratiche quotidiane, l’art. 2054 cod. civ. rubricato “circolazione dei veicoli”.

Invero, tale disposizione normativa, ai primi due dei quattro commi da cui è composta, introduce altrettanti principi speciali in ordine alla presunzione di responsabilità e relativa prova liberatoria e, non da ultimo (letta in combinato disposto con l’art. 2947 c.c., II comma), sotto il profilo della prescrizione del diritto.

Infatti si legge al primo comma dell’art. 2054 cod. civ. che: “Il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo, se non prova di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno”. E ancora al secondo comma: “Nel caso di scontro tra vicoli si presume, fino a prova contraria, che ciascuno dei conducenti abbia concorso ugualmente a produrre il danno subito dai singoli veicoli”.

Il primo comma delinea una presunzione di responsabilità in capo al conducente del veicolo che abbia causato un danno a persone o cose, così affermando un principio derogatorio rispetto alle comuni regole probatorie della responsabilità civile.

In termini generali, pertanto, il conducente del veicolo si ritiene presuntivamente responsabile dei danni causati, salvo che non riesca a fornire la prova liberatoria. Quest’ultima deve ritenersi raggiunta solo quando egli dimostri, con onere della prova a suo carico, di aver posto in essere una condotta di guida particolarmente prudente e di aver fatto tutto il possibile per evitare il sinistro, in relazione altresì alle prevedibili irregolarità di comportamento degli altri utenti della strada.

In dottrina si è sostenuto che il solo uso di un veicolo, strumento particolarmente pericoloso, comporta un dovere di particolare diligenza, capacità tecnica e prudenza: deve, necessariamente, farsi riferimento al concetto della diligenza del guidatore esperto.

Non mancano, tuttavia, opinioni diverse, che individuano nella diligenza imposta dall’art. 2054, comma I, soltanto una diligenza adeguata ai pericoli della circolazione motorizzata, ossia la diligenza normale del conducente di autoveicoli.

Non si ravvisano, invece, sostanziali contrasti sul concetto che il comportamento del conducente deve essere commisurato ai comportamenti degli altri utenti della strada, con i quali viene in inevitabile rapporto.

Più in particolare, giova evidenziare che il dovere di previsione del comportamento e dell’eventuale colpa altrui è circoscritto nei limiti dell’umana prevedibilità.

Alla luce di ciò, la prova liberatoria a carico del conducente non deve essere necessariamente data in modo diretto, cioè dimostrando di aver osservato le regole del codice della strada, ma può risultare dall’accertamento che il comportamento della vittima sia stato il fattore causale esclusivo dell’evento dannoso, comunque non evitabile da parte del conducente, attese le circostanze del caso concreto e la conseguente impossibilità di attuare una qualche manovra di emergenza.

Il secondo comma dell’art. 2054 c.c., disciplina invece la fattispecie di scontro tra due o più veicoli, introducendo, in questo caso, la presunzione della concorrente responsabilità dei conducenti, fino a prova contraria. Ciò significa che la legge presume che ciascuno dei conducenti abbia concorso ugualmente alla produzione del danno salvo, per ciascuno, la possibilità di dare la prova contraria, ossia che l’urto sia dovuto a colpa esclusiva dell’altro.

L’uniforme orientamento giurisprudenziale considera la presunzione di responsabilità di cui all’art. 2054 c.c. sussidiaria, nel senso che trova applicazione se ed in quanto non sia possibile accertare le singole colpe, ovvero anche la misura dell’incidenza causale riferibile alla condotta, pur sicuramente colposa, dei singoli conducenti (ossia quando non sia possibile graduare con sicurezza le colpe dei singoli responsabili).

Prevale, quindi, la necessità del raggiungimento di una prova che, comunque, può essere apportata anche indirettamente mediante le “presunzioni semplici”, che nell’apprezzamento del giudice possono prevalere su altri elementi di giudizio.

Dunque, oltre all’onere della prova incombente sul soggetto che intende superare la presunzione di corresponsabilità, rilevante è il compito del giudicante di valutare in concreto l’incidenza dei singoli fatti nella causazione dell’evento.

Da ultimo si ritiene opportuno evidenziare come per il danno da circolazione dei veicoli, l’art. 2947 c.c., comma II, preveda espressamente un regime prescrizionale breve di due anni ragion per cui, chiunque invochi il risarcimento del danno in tale materia, dovrà attivarsi entro tale termine biennale, pena la prescrizione del proprio diritto.

Tuttavia, il terzo comma dell’art. 2947 c.c., prevede espressamente che: ” … se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile …”.

Ne consegue che se il fatto che ha originato il danno costituisce reato (art. 589 bis c.d. “omicidio stradale” e art. 590 bis c.p. c.d. “lesioni stradali”), anche all’azione civile si applicherà, in deroga al suddetto termine biennale, il termine prescrizionale più lungo previsto ai fini penali.

Quanto appena sopra evidenziato è da ritenersi applicabile anche nel caso in cui:

1. l’azione civile viene proposta non direttamente nei confronti dell’autore del reato, ma di chi risponderà a titolo risarcitorio delle conseguenze del reato;

2. il responsabile civile è rimasto estraneo all’accertamento penale;

3. l’azione civile viene proposta da chi, pur non essendo vittima del reato, lamenti di aver subito danni in conseguenza del fatto (Cass. civ., Sez. III, ordinanza 5 luglio 2017, n.16481);

4. non sia stata proposta denuncia querela, purché il fatto costituisca reato secondo l’apprezzamento incidenter tantum del giudice (Cass. civ., Sez. III sentenza 2 agosto 2016, n. 16037).